Strettamente correlato con l’assottigliarsi dell’universo sociale delle confraternite, il graduale impoverimento del loro tessuto culturale si manifesta con tutta evidenza anche nell’uso sempre più discontinuo del coro e delle lamentanze. Ad Alimena ogni confraternita ad eccezione della Maestranza aveva un coro che lamentava.
Da molti anni a causa dell’ emigrazione e dell’ interrompersi del processo di trasmissione dei canti dai vecchi ai giovani, il numero dei cori si è via via ridotto. Dei cinque originari ne esistono attualmente due, di cui soltanto uno può dirsi ancora organicamente strutturato: è il coro della compagnia dell’Ecce Homo, formato, sebbene non interamente, dagli ultimi anziani cantori della confraternita.
Poichè i giovani non imparano più le lamentanze e mancano quindi «gli elementi appassionati al canto », il criterio che stava alla base della costituzione di ogni coro ha perso oggi vigore. E’ decaduto cioè l’obbligo di appartenere ad una confraternita per entrare nel coro, e si accetta al suo interno chiunque conosca le lamentanze, sia o no confrate. La necessità di mettere su una «squadra che sa cantare» è ugualmente alla base dell’aggregazione di alcuni confrati del Crocifisso, Rosario, San Giuseppe e SS. Sacramento, i quali, in modo instabile, formano il secondo coro.
L’attuale casualità degli aggruppamenti e la discontinuità delle esecuzioni (sebbene ciò sia da ascriversi in misura minore al coro dell’Ecce Homo), rendono spesso disarmonici i canti. Gli intervistati dichiarano che le voci non sono «adatte» o sono poco affiatate e che non sempre tutti conoscono le stesse parole delle lamentanze. Il coro dunque perde via via le sue caratteristiche di compattezza e di organicità, la sua «bellezza», così nostalgicamente testimoniata dagli informatori. Un coro organico e affiatato e un coro ben strutturato, affermano gli interessati.
Anche in passato quando si disponeva di molti elementi, esso non comprendeva più di dieci persone, distribuite secondo uno schema generale: la prima voce, indicata come prima nota o primo canto, la seconda voce o seconda nota, tre o quattro voci che facevano da seconda, due-tre, raramente quattro, da basso.
Salvatore Pantano ex contadino di 72 anni che canta ancora come prima voce nel coro dell’’Ecce Homo fa rilevare l’interessante interdipendenza che lega fra loro le voci: «Nel coro quello che faceva di prima sapeva le parole – afferma Pantano – poi c’era l’aiutante, il quale l’aiutava a rilevare la voce e quest’ultimo faceva di prima dei secondi; quindi c’erano tre-quattro secondi e tre-quattro bassi».
Le posizioni reciproche dei cantori così come le abbiamo osservate nel corso della ricerca, confermano questa «strutturalità» del coro: i componenti si dispongono in modo da formare un semicerchio con al centro colui che fa la prima voce affiancato a chi fa la seconda, e gli altri accostati così che le voci emesse dai diversi punti convergono verso il centro. Questo modo di disporsi non varia, se non minimamente nelle distanze reciproche.
L’attuale coro dell’Ecce Homo è certo meno ricco di quello descritto da Pantano. I suoi elementi non superano oggi il numero di sette, distinti in «primo canto, secondo canto e poi coro, che comprende quelli che fanno di seconda e i bassi»; manca inoltre la squiglia. «La squiglia – afferma il nostro informatore – la facevano i carusi, ossia i ragazzini. La squiglia spiccava e cantava alla conclusione del canto, cioè all’ultimo di ogni parte, perchè ci dava un colorito così bello!». Essa era dunque una voce acutissima capace di superare le altre nel coro, «fine e argentina» come può averla solo un ragazzino.
E’ interessante notare che per tradizione i carusi che facevano la squiglia provenivano tutti dalla stessa famiglia di Alimena: «Quelli erano di carovana! – commentano gli informatori – erano proprio di carriera!». Ma a fare la squiglia a volte, intervenivano fuori dal coro anche i ragazzini e i giovani che volevano imparare a cantare e volevano «farsi notare» dagli anziani: «Le lamentanze si imparano per passione, accompagnando quelli che cantano fino dai cinque o sei anni», commenta un anziano confrate. «Si impara seguendo i vecchi ed imitandoli», dichiara Pantano, che a 12 anni faceva la squiglia. Ma l’apprendimento e il tirocinio dovevano essere lunghi e difficili se, come afferma un confrate del SS. Sacramento, l’età minima per entrare nel coro era di 30 anni: lui stesso è stato accettato a 50.
Poteva accadere tuttavia che per l’improvvisa mancanza del capo-coro, primo canto diventasse anche il ragazzo la cui voce «tonevole» e il cui «genio» si fossero fatti apprezzare precedentemente, come nel caso appunto di Pantano. Egli ha cominciato a cantare ufficialmente da prima voce a 17 anni in seguito alla morte di Michele Lupo, capocoro dell Ecce Homo e suo maestro: «Io non volevo cantare all’aperto in chiesa – ricorda Pantano – mi sentivo guardato da tutti!». I riconoscimenti ufficiali e gli incoraggiamenti non venivano però concessi troppo generosamente. Anzi le buone prove dei giovani desiderosi di cantare suscitavano non poco la competitività degli anziani se questi «non volevano che i ragazzini cantassero quello che sapevano loro, per gelosia e per invidia».
L’antagonismo tuttavia non impediva che a lungo andare non si riconoscessero le buone qualità di un cantore. Del resto la presenza di un bravo elemento nel coro era fatto importantissimo per la confraternita che lo possedeva: una bella esecuzione assicurava l’ammirazione di tutto il paese. «Fino agli anni trenta – dichiara un informatore – questa tradizione (delle lamentanze) era sentita e l’opinione pubblica stava attenta a tutte le compagnie, a chi cantava meglio, e faceva i commenti».
C’era dunque una vera e propria gara di bravura fra le confraternite e in essa ciascuna cercava di superare le altre. Anzi la competitività e 1’antagonismo a questo riguardo non dovevano essere lievi se alcuni ricordano che poteva essere espulso dalla compagnia quel confrate che avesse osato cantare nel coro di un’altra. Non era tollerato cioè che si facesse «fare cattiva figura alla propria confraternita e buona figura ad una estranea», per quanto nessuna regola scritta impedisse ad un confrate di cantare altrove.
Nulla è possibile affermare riguardo alla reale concretezza delle punizioni, ma è certo che liti ed invidie all’interno di una confraternita motivano ancora oggi spostamenti da un coro all’altro: «Pantano dell’Ecce Homo – afferma un confrate del SS. Sacramento – un anno fa fu con noialtri, perché ebbero discordia nella compagnia». I motivi della discordia ci sono rimasti ignoti, ma possiamo immaginare che il coro dell’Ecce Homo per quell’anno non abbia cantato. Pantano infatti proprio per aver fatto sempre la prima voce conosce meglio degli altri le parole delle lamentanze. Malgrado l’età e l’uso sempre più discontinuo dei canti, la sua memoria è ancora vigile. Egli sa leggere e scrivere, avendo frequentato la scuola fino alla sesta elementare, e durante un incontro a casa sua mi ha trascritto personalmente la Salve Reggina Addilirusa, che i confrati cantano nella funzione pomeridiana del Giovedì santo insieme ai fedeli. La sua forte personalità e la sua funzione di prima voce ne fanno poi una figura centrale del coro.
La buona strutturazione di quest’ultimo e d’armonia delle esecuzioni dipendono anche dalle sue capacita di leader. «Il primo canto – dice Pantano – non permetteva che invece di cantare in 10 si cantasse in 15 perchè essendo molti c’è qualcuno che va fuori tonalità. Egli (il primo canto) individua chi e intonato e chi non lo è, e se qualcuno stona, è fuori tono, lo tocca nel braccio segnalandogli di non rispondere, perchè fa fare delle cattive figure».
E’ probabile che non poche invidie e gelosie reciproche nascessero fra i componenti del coro da queste buone o cattive prove: ancora oggi del resto la competitività può scoppiare vivace per motivi diversi. Ormai da diversi anni le confraternite non lamentano più prima della settimana pasquale, come invece sembra che si facesse in passato. Allora «la quaresima durava veramente quaranta giorni e ogni domenica si andava all’oratorio a fare la via Crucis e a lamentare». Ogni coro si riuniva a provare i canti ed era questa una buona occasione per i confrati di stare insieme a mangiare «caramelle o sarde salate e a bere vino a spese della confraternita ».
«Oggi invece ci si riunisce per forza » – è l’amaro commento degli informatori.