Finalmente mettevo piede a Cuba (nel Dicembre 2007) – di Paolo Scelfo
Sognavo di andarci sin dagli anni del liceo, quando cominciavo tra i banchi a imbastire le mie prime consapevolezze politiche. Si era molto giovani e Cuba e i suoi eroi, dal Che a Castro, un po’ per quell’afflato idealizzante tipico della prima gioventù, un po’ per mancata congnizione della realtà storica, campeggiavano ai miei occhi come la possibilità di un mondo altro, più giusto, più umano.
Negli anni però, già prima di toccare di mia mano, mi sono invece accorto che le cose non stavano esattamente così; e ho preso atto del fatto che le idee e la loro concreta realizzazione sono state, in questo come in analoghi casi, cose distinte, talmente distinte da ribaltarsi nel loro contrario.
Con sguardo più equanime e sereno, ormai lontani dal quel clima di serrato conflitto ideologico che negli anni della guerra fredda aveva fatto mettere alle sinistre occidentali, più o meno consapevolmente, il prosciutto sugli occhi, si è potuto poi ammettere (con amarezza, ma ammettere si è dovuto) che l’esperimento del comunismo è stato in ogni sua versione un esperimento fallimentare, che ha capovolto gli assunti da cui discendeva in strumenti di una nuova schiavitù, di un altro aspetto della disumanità: il sogno di una liberazione dall’oppressione, dallo sfruttamento, dalle più spudorate sperequazioni e ingiustizie sociali si è infranto contro una storia di nuove miserie, nuovo assoggettamento, nuova alienazione, nuovi padroni, non meno arroganti dei vecchi.
Si potrebbe discutere per ore del caso specifico di Cuba, e magari anche trovare validi argomenti per giustificare il fallimento di Castro (l’embargo americano e tutto quello che ne è disceso, in primis); ma difficilmente si potrebbe negare che in ogni caso di regime si è trattato: un regime autoritario, totalitario e antidemocratico, come in tutti gli altri casi storicamente noti; e per forza di cose, direi…
Non sarebbe potuto essere altrimenti, dacché si è assunto che un’idea e solo una potesse arrogarsi il diritto di informare di sé l’intera realtà, soppiantando tutte le altre possibilità.
L’involuzione totalitaria era già implicita, immanente negli assunti del “progetto” di rifondazione sociale ed economica portato avanti dalle avanguardie; già, perché di “progetto” si è trattato; bisogna dirlo, con buona pace di Marx (molte delle cui categorie restano tuttavia ancora validi strumenti di analisi della nostra struttura economica), il quale prevedeva l’avvento del socialismo come l’approdo spontaneo di un movimento necessario e intrinseco alla Storia:
Il comunismo per noi non è uno stato di cose che debba essere instaurato, un ideale al quale la realtà dovrà conformarsi. Chiamiamo comunismo il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente.
(K. Marx-F.Engels, L’ideologia tedesca)
Così non è stato, o non è ancora, potrebbe obiettare qualche irriducibile dalla sempreverde speranza…; potrebbe anche darsi, ma mi limito a considerare che finora, su base storica, esattamente al contrario, il comunismo è stato un ideale cui una recalcitrante realtà ha dovuto conformarsi a furia di violenze e soprusi; ed è stata la sua stessa natura di progetto, radicale ed esclusivo, che ne ha compromesso le vicende e trasformato le avanguardie, gli ingegneri, in ringhiosi cani da guardia, burattinai di un potere miopemente dittatoriale, che ha sperato di “risolvere” (o meglio occultare) le contraddizioni della propria realtà con l’eliminazione (spesso fisica) di chi ha provato a opporvisi, a denunciarle, a problematizzarle.
Tornando a Cuba, il mito del Che resta comunque indenne, questo voglio e sento di poterlo dire: magari mi piacerebbe che i giovani che ancora oggi ne portano l’effigie su una maglia o una bandiera sapessero esattamente chi è stato e quanto grande sia stato il suo cuore, il suo desiderio di giustizia; forse la morte in Bolivia, nell’ennesima guerriglia rivoluzionaria in cui si era rilanciato, dopo la breve parentesi governativa a Cuba, lo ha salvato dalla necessità di condividere gli sviluppi e le responsabilità di quel potere che egli stesso aveva contribuito a ingenerare; ed è così che oggi sventola scevro dalle ombre che invece oscurano il compagno Fidel.
Al quale Fidel è toccato invece il compito più duro di gestire quel potere, in condizioni spesso drammatiche, di isolamento e grandi difficoltà finanziarie.
Gli esiti sono stati quelli che sappiamo: carcere e condanne a morte per la dissidenza, soppressione della libertà di pensiero, espressione, informazione, movimento; un tenore di vita assai basso che ha imposto al popolo cubano, specie nei momenti più critici, sacrifici estenuanti, durissimi.
E infine, beffardo paradosso, questo comunismo cubano oggi non ha per nulla dato vita ad una società più equa; al contrario, è pervenuto a disegnare una geometria della distribuzione della ricchezza che si direbbe alquanto bizzarra.
Oggi all’Avana un medico è più povero di uno dei tanti ragazzi che vive di turisti, portandoli qua e la col suo risciò, a 20 dollari all’ora. E non è un caso che tra i tassisti che affollano le strade di giorno e di notte, ci siano avvocati o altri laureati che abbiano scelto di rinunciare alla carriera professionale (possibile esclusivamente in ambito statale), per guidare una macchina. Le corse dovranno anche segnarle su un taccuino e ne dovranno rendere conto agli esattori statali, ma le mance sono tutte loro; sicché quel salario mensile che accomuna gli statali (dai venti ai trenta dollari, circa) finiscono per guadagnarlo nel giro di qualche giorno, al massimo.
Per non parlare poi delle jineteras (le prostitute), che all’Avana sono numerosissime e il cui “fatturato”, ovviamente sommerso, è gigantesco; non credo di essere molto lontano dal vero se dico che questo esercito di rampanti e avvenenti ragazze e ragazzine costituisce oggi l’autentica élite economica del paese: guadagnare due o tremila dollari al mese, a Cuba significa essere davvero ricchi. E il regime, che sa benissimo quel che accade per le strade e nei club della città, ha creduto di salvare le apparenze proibendo ai turisti di portare le prostitute negli alberghi (che sono tutti ovviamente statali).
Ma la città brulica di casas particulares, di locatori che sbarcano il lunario affittando a ore una delle due o tre stanze di casa propria: per cui, l’opzione alternativa per il voglioso turista è comunque sempre a portata di mano.
E’ ben noto a tutti, anzi, che proprio sulle jineteras si impernia una quota importante del turismo cubano, il cui volume sarebbe certamente ridotto da una seria politica di lotta alla prostituzione, che il regime chiaramente non vuole: quella moneta forte che arriva dall’estero, assieme agli allupati di mezzo mondo, è l’unico ossigeno che differisce ancora di un po’ un crollo economico difficilmente evitabile: come dire, la Storia impone di questi ignobili compromessi…
Per contro, la gran parte della popolazione vive di molto poco. Il lavoro, bene o male, c’è per quasi tutti, ma i salari sono molto bassi, le derrate alimentari che il governo distribuisce non servono che a qualche pasto; per gli effetti dell’embargo, l’offerta di prodotti è molto povera e piuttosto contenuta, anche di generi di prima necessità; e in ogni caso il costo è spesso proibitivo.
Lo Stato assicura però l’istruzione fino al massimo livello e la sanità, fiore all’occhiello di Cuba, assiste gratuitamente e con grande professionalità tutti i cittadini (pur dibattendosi tra le difficoltà che l’embargo, anche a questo livello, genera).
Alcuni possiedono delle macchine, vera iattura per l’aria dell’Avana, che è letteralmente irrespirabile. Sebbene la quantità di macchine in circolazione sia assai inferiore, in proporzione ai cittadini, rispetto a qualunque città occidentale, i tassi di inquinamento atmosferico sono altissimi (nessuno però, credo, li misura…); la gran parte delle macchine in circolazione è fatta di cimeli che noi stimiamo ormai da collezione: Chevrolet, Crysler, Ford, Cadillac, per lo più risalenti agli anni 40’ e 50’, al periodo insomma antecedente alla rivoluzione; potete immaginare quali neri vapori sputino fuori dalle marmitte quei motori vecchissimi, stremati, continuamente rabberciati alla meglio, essendo i pezzi di ricambio praticamente introvabili.
Gli elettrodomestici, poi, sono a Cuba roba non molto diffusa: effetto, oltre che della povertà e dell’embargo, delle avverse campagne portate avanti dal regime, nel contesto di una diuturna penuria di energia elettrica.
Quasi tutti possiedono una televisione però (indispensabile strumento di distrazione, da un canto, e di propaganda politica dall’altro…); mentre pochi possiedono invece un frigorifero: non se ne vedono nemmeno in macelleria, dove la carne penzola appesa a ringhiere o giace sui banconi di pietra, alla mercé del caldo e delle mosche.
Solo da poco Raoul, che è succeduto ufficialmente al fratello Fidel, ha sdoganato il forno a microonde e il computer…
Pazienza se pochi, però, potranno permettersene uno…
Tuttavia, la gente di Cuba è straordinaria, e straordinariamente generosa e piena di energia, di voglia di vivere, di ridere, di comunicare, di ballare; nessuno si piange addosso, nonostante i motivi non manchino.
Mi rendo conto che la situazione di Cuba meriterebbe ben più ampi spazi di approfondimento e discussione e che, in un modo o nell’altro, nel breve respiro di qualche pagina si corre il rischio di sembrare banali e sommari. Il lettore non me ne vorrà e magari risponderà a questo articolo, commentando, obiettando, precisando, smentendo. Ben venga.
Volevo infine precisare che quanto detto in relazione al fallimento storico del comunismo, d’altra parte, non equivale affatto ad una incondizionata accettazione dell’opzione neocapitalista, che, in questi giorni più che mai, mostra tutta la sua fragilità, la sua meschina essenza, al di là dell’aurea, ingannevole facciata di cui ha voluto ammantarsi. Pare così che anche il sogno della ricchezza indefinita e generalizzata, che la dottrina dell’ ultra-libero mercato ci aveva promesso, abbia ceduto il passo ad un esito ben diverso: e non siamo che alle battute iniziali di una congiuntura negativa che nei prossimi mesi farà sentire i suoi effetti sull’economia reale, quella delle industrie, dei magazzini, degli scaffali, della roba che non si vende e della gente che tornerà a casa, messa alla porta come “eccedenza” da un impresa coi debiti sino al collo. Vorrei sbagliarmi, ma i venti sono minacciosi e non ci sono molte ragioni per sottovalutarli.
Quanto al passato, bisognerebbe quantomeno chiedersi se, e fino a che punto possiamo dire di esser stati davvero i custodi e i promotori della Civiltà, così come troppo spesso si è frettolosamente detto.
Se è vero che abbiamo goduto di un benessere, che abbiamo avuto costituzioni democratiche, che abbiamo avuto la libertà di scegliere, di esprimere idee, credi ideologici o religiosi senza correre il rischio di essere sbattuti in galera (almeno entro certi limiti) o peggio ammazzati, è anche vero, d’altro canto, che non tutti abbiamo goduto (e godiamo) delle stesso benessere (anzi…); che le nostre costituzioni sono state (e sono) democratiche fino ad un certo punto…; che la libertà di opinione troppo spesso è stata (ed è) “sterilizzata” a monte, da una studiata manipolazione/selezione delle informazioni: da noi i meccanismi di controllo dell’opinione pubblica sono solo più raffinati, ma la sostanza del gioco non differisce molto…
Per non parlare degli sciagurati affari che il mondo occidentale continua a fare sulla pelle dei popoli del mondo sottosviluppato:
mi riferisco al traffico di armi che le nazioni del mondo ricco intrattengono con quelle del mondo povero: sono le armi che poi finiscono anche nelle mani dei bambini-soldato, sparsi per mezza Africa; gliele vendiamo noi, insomma, e poi abbiamo anche l’ipocrisia di indignarci, quando gliele vediamo usare…
Mi riferisco ai processi di delocalizzazione della produzione industriale, cui negli ultimi vent’anni sono ricorsi moltissimi dei colossi multinazionali: produrre dove la manodopera costa pochissimo, dove non esistono né sindacati né una legislazione che tuteli le condizioni di lavoro, permette sì di abbassare i prezzi finali, ma al costo di fomentare sempre più vasti processi di sfruttamento del lavoro, di umiliazione della dignità umana, di precarizzazione dello stesso diritto alla vita.
Mi riferisco al latte in polvere della Nestlé, che nel nome del profitto, continua a mietere vittime in Africa, senza grande scalpore.
Mi riferisco alle guerre che portiamo in giro qua e là, al seguito dell’America, spacciandole per missioni umanitarie, per slanci di filantropia: non si dovrebbe mai perdere di vista che difficilmente uno Stato entra in guerra, se non vi vede la concreta possibilità di una congrua contropartita in ricadute economiche e geopolitiche. Non a caso gli africani vengono generalmente lasciati scannare gli uni con gli altri.
Mi riferisco al terrorismo di Stato, che in ragione della lotta al nemico (sia esso l’Urss, o Al Qaeda, o l’asse del Male o chi diavolo si voglia) troppo spesso ha avuto in spregio la democrazia e le sue leggi.
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi esponenzialmente. Ma non serve andare oltre.
Ripongo nuovamente la domanda:
davvero possiamo dire di essere stati, al di qua della cortina di ferro, i custodi della Civiltà?
Personalmente, ne dubito.
Tuttavia, la speranza per il futuro non muore, non deve morire.
Per il momento, intanto, spero sia vero che quest’America sia stanca di sé stessa.
E dico: “Coraggio, Obama!”
(Le foto che qui vi propongo sono state scattate nel dicembre del 2007, all’Avana, tra l’Avana vieja e il quartiere di Regla).
Condivido l’invito al coraggio, per Obama. Ho letto il resoconto di viaggio (e non solo) su Cuba. Ho apprezzato moltissimo le foto, molto belle. A bientot, Rossana.